Nairobi, 7 giugno 2020
Strade virali
Due settimane fa il Kenya aveva chiuso i confini con la Tanzania. Nei giorni precedenti 48 camionisti erano risultati positivi al coronavirus a Namanga cittadina di confine a 140 chilometri a Sud di Nairobi. Lunghe file al posto di frontiera, giorni di attesa per il test, poi tutto bloccato e gli autisti rimandati indietro. Dopo vari incontri tra le autorità dei due paesi, verrà installato un laboratorio mobile a Namanga dove i long distance truck drivers potranno fare il test, avere il risultato in 5 ore e se negativi ricevere il Covid free certificate e proseguire. L’attesa sarà comunque lunga e nel frattempo i passaggi alla dogana si sono dimezzati. Arrivando dalla Tanzania prima di giungere al posto di frontiera con il Kenya si può svoltare ad Est per andare verso la piana di Amboseli dove nei giorni limpidi si è accompagnati dalla vista del Kilimanjaro per tutto il percorso. Da qui la linea di frontiera è da sempre attraversata su piste e sentieri alternativi dai pastori Maasai e dalle loro mandrie che non hanno mai tenuto conto dei confini politici. Attraversando invece la frontiera ufficiale e salendo da Namanga verso nord si raggiunge la highway Mombasa-Nairobi-Kampala fino alla regione dei Grandi Laghi. La prima parte di una grande arteria transafricana da Est ad Ovest, dall’Oceano Indiano all’Atlantico, mai completata. Da Kampala in Uganda si arriva a Kigali in Rwanda e poi fino nella Repubblica Democratica del Congo a Bukavu sul lago Kivu. Da qui si riesce ancora a raggiungere via terra Kisangani prima che la strada si perda nelle paludi e nelle foreste pluviali del Congo. Negli anni ‘80 e ‘90 questa via transafricana era stata denominata “Autostrada dell’ AIDS”. Il virus non si fermò davanti alle foreste ma utilizzò la navigazione sul fiume Congo per proseguire su altra strada virale, la Kinshasa highway. I camionisti, i commercianti, i soldati, i poliziotti, sono stati per anni tra le categorie con il più alto numero di sieropositivi all’HIV, insieme alle prostitute. Lungo le migliaia di chilometri della Transafricana il virus veniva diffuso alle fermate, ai crocevia, negli alberghi di passaggio, nelle lunghe soste ai confini. E poi da lì trasmesso durante i ritorni a casa. Famiglie e villaggi interi scomparvero. Nei primi tempi quando non si prendevano le necessarie precauzioni si infettarono anche molti operatori sanitari, soprattutto nelle sale operatorie. La via dell’AIDS non fu solo lungo l’Equatore ma anche tra nord a sud e viceversa. Tra Nairobi e Moyale sul confine etiopico ci sono 800 chilometri di cui 500 sterrati fino a pochi anni fa, ora asfaltati. Ci si impiegava da due a tre giorni passando a nord del Monte Kenya. Si incontravano vari luoghi chiamati makutano che in kiswahili significa sia incrocio che incontro, dove nel tempo si sono formati agglomerati abitativi con mercati e piccoli hotel. Questi veri e propri paesi molto spesso risultarono avere le più alte percentuali di sieropositivi e malati della regione. Sono stati decenni di guerre, genocidi, colpi di stato, dove eserciti e milizie hanno violentato le popolazioni e messo a ferro e fuoco i villaggi e le città. Guerre e conquiste hanno sempre portato oltre a distruzione anche malattie. Durante la guerra del Peloponneso del V secolo a.c. la grande peste di Atene arrivò via mare dal porto del Pireo unica via di approvvigionamento per gli ateniesi rinchiusi dentro le mura delle città assediati dagli Spartani. E via mare arrivarono anche il vaiolo, il morbillo, l’influenza durante la conquista delle Americhe. E probabilmente anche malaria e febbre gialla insieme ai loro corrispettivi insetti vettori nelle stive delle navi. Quello delle malattie fu un ruolo importante nella conquista delle Americhe, anche se non determinante come quello delle armi e dell’imposizione di un regime schiavista e della conseguente disgregazione sociale delle comunità Indios. Tra ‘500 e ‘600, nel corso di un secolo la popolazione degli Atzechi da 25 milioni crollò ad un milione senza più riprendersi. Unica malattia che fece il percorso opposto, da Ovest ad Est, probabilmente fu la sifilide. Che a sua volta fu poi diffusa in tutta Europa dagli eserciti di Napoleone, le mal francais.
E la guerra e la via dell’Oceano c’entrano anche nella diffusione della più grande pandemia mai conosciuta, l’influenza spagnola. Secondo una delle teorie storiche più accreditate ebbe origine negli Stati Uniti nel 1918, precisamente nel Kansas, dove si propagò ad un campo di addestramento per i militari destinati alla guerra in Europa. Un medico della zona si rese conto degli strani sintomi e della rapida diffusione della malattia, ma governanti e militari avevano ben altre priorità belliche e spedirono comunque migliaia di soldati in Europa. Gran parte delle truppe americane sbarcò nella primavera del 1918 nel porto francese di Brest che divenne il primo focolaio della pandemia nel continente europeo ancora in guerra. La Spagna era neutrale ed i giornali spagnoli furono i primi a denunciare la vastità dell’epidemia, mentre nei paesi in guerra le notizie erano censurate creando così un ulteriore ritardo nel controllo della malattia. La gran parte delle spese degli stati erano per la guerra, e non esistevano praticamente sistemi sanitari nazionali. La salute e le cure mediche erano un privilegio delle classi ricche. Tutto questo contribuì all’ecatombe di morti che colpì soprattutto i quartieri urbani più poveri, gli slum di allora, dove malnutrizione e carenza di servizi igienico-sanitari erano diffusi. A distanza di un secolo, queste condizioni sono ancora presenti in molte megalopoli del mondo, spesso in nazioni dove la sanità pubblica è carente ed i budget statali sono indirizzati a spese militari ed a mega infrastrutture, con alti tassi di corruzione ed evasione fiscale. Nel nostro mondo di comunicazioni globali, i virus usano tutti i mezzi di trasporto esistenti. Il Covid-19 ha viaggiato su aerei e navi da crociera, ha preso autobus e metropolitane, ha percorso autostrade e ferrovie.
Affrontare e controllare le infezioni pandemiche con le misure del distanziamento sociale, lavorare alla ricerca di vaccini e farmaci, rompere la catena dei contagi con l’immunizzazione della popolazione, non sono problemi di salute individuale ma di responsabilità collettiva, sono obiettivi di una cultura sanitaria globale che deve interessare tutti, e per sua natura dovrebbe essere egualitaria e solidale.