Warren

Novembre, 2019. Sono a Nairobi da due giorni: piove con insistenza, siamo nel periodo delle piccole piogge (contrapposto a quello delle grandi piogge di marzo) che però tanto piccole non sono.

Si sente tambureggiare sul tetto dell’ambulatorio ortopedico del Neema Hospital. Da ieri mattina sto visitando i pazienti operati negli anni precedenti e quelli che da domani porterò in sala operatoria. Verso mezzogiorno vengo chiamato in ambulatorio di pediatria da Maria Vittoria, giovane, infaticabile collega: mi chiede un parere ortopedico per un paziente che sta visitando. Entro e la collega mi mostra un bambino di 12 anni sdraiato di fianco sinistro sul lettino, molto magro, gambe e braccia scheletriche con numerose piaghe, estese anche al torace ed alla schiena. Un quadro clinico che, oltre a denutrizione, evidenzia trascuratezza, in netto contrasto con l’aspetto florido dei due fratelli più piccoli presenti insieme alla madre. Il bambino mi appare molto sofferente, ha lo sguardo assente, ogni tentativo di muovere braccia e gambe provoca smorfie di dolore, risponde a fatica alle semplici domande che gli rivolgo. Dalla madre riusciamo a sapere poco sul perché si trovi in quella condizione di prostrazione, ricorda che era stato operato alla coscia sinistra da non più di tre anni in un ospedale fuori Nairobi: la causa del ricovero era un’infezione ossea, un’osteomielite. La donna aggiunge che forse qualche piaga alle braccia era già presente prima dell’operazione.

D’accordo con la pediatra decidiamo il ricovero per un trattamento nutrizionale immediato e per sottoporlo a esami del sangue e a radiografie. Dobbiamo avere più elementi per poter iniziare una terapia adeguata. La madre ci dice che non ha i soldi per pagare la degenza ospedaliera: vorrebbe portarlo a casa per curarlo con le medicine di nostra prescrizione. Ha anche i due piccoli da accudire e non può fermarsi in ospedale per stare con lui.

Ci consultiamo io, Maria Vittoria, Gianfranco, il chirurgo coordinatore del progetto Salute nelle baraccopoli di World Friends qui al Neema, e Njogu Washington, il Direttore Sanitario medico-internista. Dopo tanti anni passati insieme ci unisce un doppio legame: l’amicizia e il piacere del nostro lavoro e, in casi come questo, non prendiamo mai decisioni singolarmente. Non possiamo lasciare che la donna si porti a casa il bambino, è un paziente ad alto rischio. La donna se ne va con i due piccoli e il paziente viene portato in reparto per iniziare un trattamento. Lei sembrava come rassegnata alla sorte del figlio, quasi l’avesse già dato per perso, la cosa più sconcertante era che il bambino sembrava consapevole del motivo dell’abbandono.

Nel primo pomeriggio passo nel reparto pediatrico per vederlo, è ancora girato su un fianco ed indossa un pigiama che gli ha messo la caposala dopo avergli medicato le piaghe; gli antidolorifici stanno facendo il loro effetto, non ha febbre.

Mi sorride, gli richiedo il nome che mi ero dimenticato dopo avere visitato una moltitudine di pazienti: “Warren”, mi dice con un sorriso appena accennato. È una richiesta di attenzione e di affetto di cui è carente chissà da quanto. Con Henry, il fisioterapista, proviamo a muovergli i gomiti e le ginocchia rimaste piegate a lungo per il dolore e decidiamo per un trattamento fisioterapico per i giorni a venire. Proveremo poi a metterlo in piedi per farlo camminare. Quando la mattina successiva passo a salutarlo prima di entrare in sala operatoria lui sta mangiando il porridge in una scodella di plastica, come sempre sdraiato su un fianco. Chiamo Henry che è già al lavoro in fisioterapia e lo incarico di proseguire la ginnastica al letto con due sedute giornaliere, mattino e pomeriggio. Gli suggerisco anche di cominciare a metterlo seduto nel letto con cautela, appoggiato a cuscini.

Alla fine degli interventi chirurgici passo a salutarlo. Dallo sguardo ho l’impressione che mi stesse aspettando. Ha mangiato un po’ di riso e fagioli che vedo avanzati in un piatto sul comodino, la madre non si è ancora vista. Maria Vittoria ha iniziato un protocollo con esami del sangue e radiografie, ha iniziato anche un trattamento farmacologico per le piaghe e per i dolori articolari, che sono già in diminuzione rispetto al giorno precedente. Nel tardo pomeriggio, passando per il controllo dei pazienti operati mi fermo ancora da lui per esaminare le radiografie fatte da poco. Non ci sono segni evidenti di infezioni ossee, né al torace ci sono segni di malattia tubercolare, si vedono solo piccole calcificazioni nelle zone che corrispondono alle piaghe della pelle, segno che sono di vecchia data. Un quadro radiografico strano, ma di queste stranezze che si incontrano solo qui non mi meraviglio più. A questo punto decidiamo di iniziare anche una terapia antitubercolare nel sospetto di una tubercolosi extrapolmonare (le ricerche colturali del batterio ci daranno il risultato tra almeno due mesi, questa attesa potrebbe essere fatale per Warren). Per il resto il ragazzo risulta anemico mentre tutti gli altri esami sono negativi, compreso il test per l’AIDS.

Le infermiere mi dicono che nel pomeriggio è finalmente passata la madre, sempre accompagnata dai due piccoli. Che si sia resa conto che questo figlio può guarire con il nostro ed il suo aiuto? Forse a casa ritenendolo inguaribile potrebbe averlo portato da qualche guaritore ciarlatano che gli ha somministrato intrugli a base di schifezze varie o farmaci del tutto inappropriati al caso. Se ne trovano tanti di questi soggetti senza scrupoli, non hanno niente a che vedere e non sono da confondere con i guaritori tradizionali presenti nei villaggi, i quali hanno una loro funzione tradizionale e pratica. Ma non lo saprò mai, lei non me lo dirà.

Passano i giorni, Warren migliora a vista d’occhio: la dieta ad alto contenuto di proteine sta funzionando. Henry l’ha messo in piedi e lo fa camminare, la madre viene regolarmente a trovarlo insieme ai fratellini. Siamo ormai a tre settimane dal ricovero, finalmente ha lasciato il letto, spesso lo vedo seduto nel prato di fronte alla pediatria insieme ai fratelli. Gli è tornato il sorriso. Oggi intrattiene i due piccoli nella sala riservata ai giochi in reparto. Stanno giocando con dei cubi di legno: Warren li impila ogni volta in forme diverse dopodiché i due piccoli si divertono a farli crollare. Mi vedono dalla finestra a vetri che dà sul corridoio e si alzano per venirmi incontro: giusto un saluto battendo un cinque. Che continuino a giocare, ora è la medicina più efficace.

Maggio, 2020. Sono a casa, bloccato dalla pandemia. Sarei dovuto essere a Nairobi proprio in questi giorni. Maria Vittoria mi ha puntualmente aggiornato sulle condizioni di Warren che è ancora in terapia farmacologica. Ogni mese l’ha visto al controllo: nel complesso è molto migliorato anche se persistono alcune delle piaghe che sono tuttora da medicare. Sapevamo che sarebbe stata lunga… però ora cammina e può andare a scuola.

“Sapessi quanto mi rendi felice, Warren”.

Antonio Melotto

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