Joyce
Una sera di fine novembre 2017, all’ora di cena, squilla il telefono in guest house: chiamano dall’OPD (Out Patients Departement, che funge da Pronto Soccorso) per una bambina appena arrivata in preda a crisi epilettiche.
Ci vado con Maria, la giovane pediatra di Torino in tirocinio al Neema.
Troviamo Joyce, otto anni, in stato di male epilettico, che significa che è incosciente, respira male con bava alla bocca e presenta ripetuti movimenti a scatti degli arti dovuti a contrazioni muscolari disordinate. Si avvicina subito il padre, un uomo ancora giovane che ci saluta cordialmente perché mi riconosce. Qualche anno prima avevo visitato Joyce e l’avevo indirizzata in uno dei nostri centri CBR (Community Based Rehabilitation) specializzato nella fisioterapia per i bambini portatori di paralisi cerebrale. Ricordo che aveva un problema presente dalla nascita. La solita maledetta storia di povertà: nella baracca, senza un’assistenza competente, un parto difficoltoso durante il quale il cervello della bambina aveva riportato danni irreparabili. Le conseguenze per Joyce sono tutt’ora un ritardo mentale con difficoltà di apprendimento e, per fortuna, una lieve paralisi agli arti inferiori che non le impedisce di camminare e di correre, seppure in una maniera tutta sua.
George, questo il nome del padre, ci racconta che è da poco che la bambina ha queste crisi e ci chiede con preoccupazione delle sue condizioni. Mentre Maria insieme all’infermiera di turno inizia la terapia per fleboclisi, lui mi racconta con voce ferma senza toni di lamento che la moglie è morta l’anno scorso.
Non mi sento di chiederne il motivo.
Dopo qualche istante di silenzio, mi offre due pacchetti di noccioline. Le vende girando qua e là per le baraccopoli nell’area di Kasarani, una zona molto popolata situata immediatamente alle spalle del nostro Ospedale dalla quale proviene la maggior parte dei nostri pazienti. Io lo osservo: giacca grande per la sua taglia, camicia un po’ sgualcita sul collo, pulita, non ha le solite infradito ma le scarpe e anche questo, oltre al modo di esprimersi, gli conferisce una certa dignità. Chiedo quanto costano i due pacchetti di noccioline tostate che mi ha messo in mano, ma lui non vuole soldi: insisto e alla fine mi dice che fanno 20 scellini l’uno.
Vado in camera in guest house per prendere i soldi e attraversando il piazzale assolato penso che potrei dargli almeno mille scellini che per lui sarebbe una bella sommetta (e per me sono la modesta cifra di dieci Euro), ma il suo aspetto dignitoso mi fa pensare che è un uomo che non va umiliato con la carità e allo stesso tempo io non voglio mettermi su un piedistallo del bianco benefattore. Prendo 50 scellini e glieli porto, lui mi ringrazia sorridente.
Le crisi della bambina si diradano, la possiamo portare in reparto infantile per la notte.
Il mattino seguente la vediamo in reparto che salta e corre in corsia, il suo recupero è al di là delle più ottimistiche previsioni: è una bambina docile, risponde al sorriso, parla con difficoltà a causa del ritardo mentale ma non possiamo aspettarci di più dalle sue condizioni.
George è pronto per riportarsela a casa con la terapia prescritta da Maria che la controllerà periodicamente. Se ne vanno entrambi.
Tra poco si mischieranno alla folla della baraccopoli, tra mille bottegucce in cui si vende tutto e di più, tra fango, cani randagi, galline, anatre che sguazzano nelle pozzanghere e capre che brucano la poca erba tra rifiuti sparsi dovunque.
Ma cosa posso capire io di quel mondo? Lo vedo con occhi di chi sa che non sarà mai il suo. Conservo ancora quei due sacchettini di noccioline, sono sulla mia scrivania: li vedo, penso…