Due fratelli
Ottobre 2019: oggi è una magnifica giornata di sole. C’è nell’aria una luminosità che esalta il rosso degli ibiscus fioriti nel giardino dell’ospedale. Il cielo è terso, quasi a farsi perdonare per come era ieri, grigio e piovoso.
Il primo paziente dell’ambulatorio ortopedico è Timothy, un giovane di 20 anni accompagnato da Ruth, la madre, che lo sorregge mentre entra in ambulatorio: è evidente che ha difficoltà a camminare autonomamente. È impressionante la fatica che fa a muoversi, lo mettiamo quasi di peso sul lettino. Osservando i suoi movimenti stentati mi appare chiaro il suo problema, che sarà in seguito confermato dalla visita: è affetto da una malattia che colpisce i muscoli degli arti e del tronco indebolendoli progressivamente. (Con ogni probabilità il suo futuro sarà la carrozzina e l’ultimo stadio arriverà quando saranno colpiti i muscoli respiratori, il cuore o entrambi). In un buon numero di pazienti queste malattie sono già presenti alla nascita, perché determinate geneticamente. Alcune di queste sono legate ai cromosomi sessuali.
Ruth mi racconta che Timothy ha iniziato a manifestare segni di debolezza dopo i 5 anni, accompagnati da scarso interesse per il gioco con gli altri bambini. Era sempre l’ultimo nelle corse dietro alla palla. Lei lo accompagnava alle scuole primarie e i compagni lo aiutavano per le necessità di spostamento all’interno della scuola. Non ha proseguito gli studi con la scuola superiore. Lo aiuto a scendere per esaminare meglio come cammina. Può alzarsi e restare in piedi solo se sorretto alle ascelle, poi quando trova il punto di equilibrio inizia a camminare portando in avanti il bacino e indietro la schiena ed il collo per mantenere il baricentro e non cadere. È una camminata precaria, basta un piccolo inciampo e può cadere, come spesso è già avvenuto, stando al racconto della madre: da piccolo cadendo infatti si è fratturato un braccio. È strano che non si sia procurato altre fratture, ma questo è giustificato dal fatto che ha un’autonomia di cammino di poche decine di metri, quindi il rischio di cadute è basso. Penso che sia ora di procurargli una carrozzina, lo manderò all’APDK (Association for Phisically Disabled of Kenya) perché gliela procurino. Il ragazzo parla pochissimo, mi guarda come se già sapesse che per lui ci sarà ben poco da fare. La rassegnazione è espressa da un sorriso timido col quale cerca di rispondere al mio. Non mi va di fargli troppe domande sul suo stato di salute, mi basta così: gli prescrivo dei farmaci cortisonici e parlo con i fisioterapisti per iniziare un piano di mobilizzazione assistita. Gli propongo la carrozzina. Il medesimo sorriso mi dice che accetta e ha capito che non c’è altro rimedio. Lo rivedrò tra una settimana. Al momento del commiato Ruth si avvicina e mi sussurra che ha un altro bambino di 6 anni con lo stesso problema ma che è anche portatore di Sindrome di Down. Più che una richiesta di aiuto è la confessione di una vergogna, di una sofferenza tenuta dentro per troppo tempo.
Gran brutta faccenda. Con qualcuno doveva pur sfogarsi: è una prova di fiducia, sono felice contento di essermela conquistata. La invito a portarmi il piccolo al prossimo controllo, assieme a John.
È passata una settimana. Ruth si presenta alle 8 del mattino con i due figli, Timothy e John. Chiedo subito a Timothy come sta, mi risponde: “fine” (non ho ancora trovato un paziente che risponda diversamente, forse il “fine” corrisponde a “come vedi sono ancora vivo” e per il popolo dello slum questa non è cosa da poco). Osservando i suoi spostamenti e visitandolo constato che non è per niente migliorata la forza. Deve comunque continuare la terapia medica per ora, oltre alla fisioterapia. Ora mi rivolgo al piccolo John che ha il caratteristico aspetto del bambino Down e in aggiunta un’estrema debolezza di braccia e gambe. Ha cinque anni, anche lui cammina solo se sorretto, è sempre in braccio alla madre, risponde timidamente a qualche semplice domanda in Swahili. Ruth ha avuto i due figli da due diversi uomini: a questo punto mi è chiaro che la malattia muscolare della quale sono affetti i figli è legata al cromosoma X e che lei è portatrice sana di questa malattia. Oggi Ruth è più disinvolta della scorsa settimana, ha preso fiducia in noi e racconta che ora vive con i genitori anziani dopo che entrambi gli uomini con i quali viveva l’hanno abbandonata quando si sono accorti della malattia dei bambini.
Chiamo a consulto i pediatri, Maria Vittoria arriva accompagnata da Barbara e Stefano, due pediatri di Siena che periodicamente vengono in missione, e valutiamo insieme il bambino. Per ora lo lasciamo gestire anche lui dai nostri fisioterapisti, non ci sono molte speranze in considerazione del fatto che i suoi sintomi sono comparsi prima e sono più gravi di quelli presentati dal fratello alla stessa età. Guardavo Ruth mentre teneva in braccio il suo bambino e provavo ad immaginare quanto sia dura la sua vita: abbandonata due volte da chi non poteva sopportare lo stigma di avere un figlio portatore di disabilità. Nello slum questo è il destino di gran parte delle madri con figli disabili.
Come uomo provo vergogna. Provo rabbia, delusione, frustrazione e impotenza di fronte a queste miserie: la povertà estrema è un vicolo cieco da cui non si esce, spesso diventa scuola di sopraffazione, di violenza. Mors tua vita mea. Egoismo, superstizione, la povertà culturale e materiale che ti impedisce di pensare ad una vita migliore, ad avere uno scopo, un futuro non immaginabile nello squallore dello slum i cui vivi. So bene quanto ci urta nel mondo ricco venire a conoscenza di ciò, ma è facile giudicare con la pancia piena, l’automobile, la TV e una casa degna di tale nome.