Chris
Quella mattina di marzo 2002 mi trovavo al Coptic Hospital con Gianfranco. Una magnifica giornata di sole che non faceva ben sperare per l’imminente stagione delle piogge tanto desiderata. Avevamo stipulato un accordo con la direttrice egiziana Aida, per poter visitare ed operare alcuni pazienti provenienti dalle baraccopoli di quell’area cittadina. Non era passato neanche un anno dalla fondazione di World Friends e il Neema Hospital allora era un obiettivo ancora da realizzare per la nostra giovane organizzazione.
Il Coptic si trovava sulla Ngong Road, era di dimensioni modeste, tutti edifici a un piano: ambulatorio generale, maternità, pediatria, blocco operatorio, reparto internistico e degenza post-chirurgica. Tutto il compound era racchiuso da alte mura. Si accedeva da un cancello metallico che riportava l’insegna dell’ospedale, una scritta poco evidente che, passando per strada, neanche si notava. Oggi l’ospedale è stato completamente ricostruito. Il blocco centrale di sei piani è attorniato da un poliambulatorio comprendente ogni specialità medica e chirurgica e c’è una grande insegna all’entrata ben visibile.
Quel giorno, quasi vent’anni fa, ci aspettavano i primi pazienti da visitare, tutti con problemi chirurgici o ortopedici, bambini con piedi torti, ernie ombelicali o inguinali e con osteomieliti. L’ultimo paziente era un uomo di 35 anni che indossava una camicia un tempo bianca, un paio di pantaloni lisi in più punti e le immancabili infradito. Emanava un odore di sudore e di urina come chi non si poteva lavare da giorni. Più di questo mi colpì il suo sguardo spento di chi non ha più certezze e cerca almeno una speranza. Salutandomi aveva trovato la forza di sorridermi. Ero io la sua speranza.
Aveva un gesso che inglobava coscia, gamba e piede sinistro. Lo stivalone gessato era rotto all’altezza del ginocchio e sporco di sangue e fango essiccati. L’uomo ci riferì che era caduto da un matatu, un pullmino affollato, a causa della solita ressa per scendere in prossimità della fermata. Aveva urtato la gamba contro il cordolo del marciapiede, procurandosi, oltre ad una frattura, anche una ferita della pelle che scopriva l’osso, quella che noi medici chiamiamo frattura esposta.
“Brutta cosa”, pensai subito. Da noi, in ambiente di elevata qualità dell’assistenza, questa modalità di trauma poteva essere causa di importanti complicazioni, tra cui soprattutto l’infezione. Figuriamoci come sarebbe potuta finire in quel contesto di scarsa igiene. Chris, questo il suo nome, proseguì il racconto dicendoci che era stato portato in ospedale, credo Mbagathi Hospital, medicato sommariamente e messo a letto con una stecca di legno che bloccava la gamba fratturata. Al mattino successivo era passato un medico che, dopo aver preso visione delle radiografie gli aveva proposto un intervento chirurgico, ovviamente a pagamento, ma Chris non aveva la somma richiesta. Mai sarebbe riuscito a racimolare quei 70.000 scellini necessari all’operazione! Avrei potuto davvero essere io la sua speranza? Non potevo certo tirarmi indietro. A questo punto gli avevano applicato quel gesso e lo avevano dimesso. Chris era disperato, non sapeva come comportarsi, essendo venuto a Nairobi da parenti per una occasione di lavoro, a quel punto sfumata malamente. Era anche lontano dalla sua casa di Busia.
Per prima cosa aprii quel gesso per ispezionare la gamba: mi investì un fetore di cadavere. La gamba nuotava in un pus cremoso color caffelatte che usciva dalla ferita insieme a schegge d’osso. Lo ricoverai e programmai un intervento di lavaggio e pulizia per il giorno successivo. In sala operatoria dovetti rimuovere parecchi frammenti di tibia non più vitali che sarebbe stato pericoloso lasciare in situ, perché avrebbero mantenuto l’infezione. Per poter dare stabilità alla gamba decisi quindi di impiantare un fissatore esterno a ponte della mancanza di osso tibiale. Il secondo intervento sarebbe stato un innesto osseo prelevato dal bacino, ma al momento le condizioni di grave contaminazione locale rappresentavano una chiara controindicazione. Così questo secondo tempo fu rimandato a quando sarei tornato per la missione successiva, cinque mesi dopo, quando l’infezione si sarebbe presumibilmente spenta.
Chris tornò a casa e si presentò puntuale al mio ritorno al Coptic. Eseguii quell’innesto ed applicai un altro tipo di fissatore esterno, che dava più garanzie di tenuta meccanica. Chris venne dimesso dopo pochi giorni e fu in grado di andare a casa camminando sulle sue gambe con la prescrizione di medicazioni ogni due settimane sino a che l’osso trapiantato sarebbe attecchito. La gestione del paziente con fissatore esterno necessitava di sorveglianza stretta, difficilmente realizzabile in quel contesto, ma per mia e sua fortuna trovammo la soluzione: Chris fu seguito con competenza da Henry, un fisioterapista che per felice coincidenza era anche suo vicino di casa a Busia e che io conoscevo bene per aver lavorato con lui negli anni 90’ al Tabaka Mission Hospital nella regione del Nyanza. Io e Henry eravamo e siamo tutt’ora amici. Ricordo che lo chiamai spiegandogli il caso ed il resto del lavoro lo fece lui. Periodicamente mi aggiornava inviandomi le foto e le radiografie di controllo della gamba del nostro paziente, che per otto mesi portò il fissatore esterno senza complicazioni, potendo muoversi in autonomia.
Chris tornò per la terza volta a Nairobi per la rimozione del fissatore e finalmente iniziò a camminare senza ingombro: all’inizio con cautela, con l’aiuto di un bastone, poi completamente libero. Tornò a casa con il bus, contento di rientrare in famiglia in piena efficienza. Da allora Henry mi ha sempre aggiornato sulle sue condizioni.
Due anni dopo il mio amico si è trasferito a Nairobi per lavorare al Neema Hospital come fisioterapista-gessista e assistermi durante le missioni ortopediche. Quando, al suo arrivo a Nairobi ci siamo incontrati, mi ha mostrato una foto di Chris che teneva in braccio il suo ultimo figlio, di pochi mesi, al quale aveva dato il nome di Antonio.
Sono passati più di dieci anni e Chris, tramite Henry, mi aggiorna con le loro foto. Ormai il piccolo è cresciuto ma noi lo chiamiamo ancora “little Anthony”.
Antonio Melotto
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