Ian di Korogocho

Le sei del pomeriggio, sono in pediatria per controllare i due bimbi operati questa mattina. Hanno un po’ di dolore, sopportano mal volentieri il gesso che blocca loro la gamba e il piede. Le dita sono calde e le possono muovere su mia richiesta: è un buon segno. Chiedo alle infermiere di somministrare loro un calmante e vado in guest house per rilassarmi un po’. Tornerò a vedere i piccoli prima di notte.

Preparo due tazze di tè: è arrivato Henry per berlo in compagnia e scambiare due chiacchiere prima di andare a casa con il boda-boda (così è chiamato in Kiswahili il moto-taxi, un mezzo agile e a basso costo per muoversi nel traffico impossibile delle grandi città Africane). Un geco è abbarbicato all’angolo tra il soffitto e la parete di fronte a me, immobile, sembra che mi guardi: è a caccia di zanzare e mosche. All’improvviso lo vedo scattare fulmineo sulla preda. Bene, una zanzara in meno.

Il tempo sta cambiando: vedo nuvoloni neri in arrivo, si avvicina il tramonto e si annuncia una serata di pioggia.

Mentre sorseggiamo il Kericho Gold Tea (ottimo tè dell’altipiano, a nord di Nairobi) parliamo di Ian, uno dei pazienti visti in ambulatorio oggi. Ha vent’anni e proviene da Korogocho, una delle baraccopoli più affollate e degradate di Nairobi, il cui nome significa “confusione”. Me ne aveva parlato Phelgona, un’infermiera che vive a Korogocho e con la quale collaboro da molti anni, anch’essa madre di un ragazzo disabile. Mi ha informato che Ian non può camminare, vive da recluso in baracca ed è saltuariamente assistito da una sorella maggiore. La madre è morta quando lui era neonato, il padre non l’ha mai conosciuto.

Abbiamo mandato la nostra ambulanza a prelevarlo e ora me lo portano in ambulatorio su una carrozzina. È affetto dalla nascita da “spina bifida”, una malformazione al midollo e alla colonna vertebrale che gli ha causato una paralisi degli arti inferiori. Mi indica il piede destro, che è avvolto in una pezza che parecchi giorni fa era bianca ma che ora è di un colore tra il grigiastro e il verde.

Rimuovo con cautela la pezza appiccicata al piede, perché temo di fargli male, ma lui, che ha intuito la mia preoccupazione, mi dice di non avere timore in quanto la malattia gli ha tolto la sensibilità agli arti inferiori. Ci scambiamo uno sguardo: provo una simpatia istintiva per questo ragazzo, “sento” che la cosa è reciproca. Il ragazzo è sveglio.

Il piede è gonfio, con la pelle lacerata e punteggiata da fistole dalle quali esce pus maleodorante. Si tratta di una brutta infezione che sicuramente coinvolgerà anche le ossa. È molto probabile che la causa di tutto sia stata una scheggia di legno anche se lui non ricorda di essersi ferito.

Sento anche un forte odore ammoniacale che non proviene dal piede ma è dovuto all’incontinenza urinaria, una conseguenza della sua malattia di base. Come rimedio alla perdita cronica di urina usa una pezza di tessuto spugnoso che funziona da pannolone.
Neanche a parlarne di doccia o bidet a Korogocho, dove vive.

Henry accosta la carrozzina al lettino per poterlo medicare e lui, senza farsi aiutare, con la sola forza delle braccia salta sul letto. Un balzo atletico che mi lascia di stucco.

Lo medichiamo, lo laviamo con Amuchina e lo accompagniamo in radiologia.

Quando ricevo le lastre mi rendo conto che la situazione è disperata: le ossa sono consumate dall’infezione, in particolare il calcagno è eroso in più punti e ha un aspetto poroso, come una spugna.

Insieme a Henry (che parla Swahili) gli spieghiamo la necessità di un intervento chirurgico per il suo piede, perché la grave infezione che lo coinvolge, se non curata, potrebbe causare guai molto più seri, mettendo a rischio la sua stessa vita. La soluzione radicale sarebbe l’amputazione, ma lui rifiuta decisamente. Vuole andare a casa e tornare dopo tre/quattro giorni per la prossima medicazione.

Se ho conquistato la sua fiducia tornerà.

E infatti me lo ritrovo in ambulatorio un lunedì mattina, portato dalla nostra ambulanza. È venuto solo per bonificare il piede dal pus che ancora esce dalle fistole, non per l’amputazione. La mattina seguente procedo all’intervento di pulizia insieme a Lino, arrivato dall’Italia nel weekend. È il collega ortopedico che da dieci anni mi aiuta per due settimane negli interventi più complessi che necessitano della presenza di un secondo operatore. Gli sono molto affezionato, siamo in perfetta sintonia di comportamento e approccio con i nostri pazienti e la mia stima per lui è accresciuta dalla sua grande professionalità. È un ottimo chirurgo, colui al quale lascerò volentieri questa attività quando sarà il momento di ritirarmi.

Parlando con Lino delle difficoltà di spostamento del ragazzo all’interno della baraccopoli, ci viene l’idea di acquistare un triciclo a propulsione manuale (come una handbike) che lo agevolerebbe molto nel muoversi, anche in città.

Dimettiamo Ian dopo tre giorni con prescrizione di bagni con Amuchina e medicazioni dei quali si occuperanno gli infermieri dell’ambulatorio ortopedico.

Per noi è arrivato il momento di tornare, è la fine della missione.

Dieci giorni dopo il mio rientro ricevo da Henry due foto di Ian: la prima lo ritrae raggiante sul suo triciclo, nella seconda è nel prato di fronte all’ambulatorio con il piede a bagno in un catino pieno di Gik (così chiamano qui l’Amuchina).

Al mio ritorno, sei mesi dopo, Ian è uno dei primi pazienti che si presentano al controllo. Mi mostra sorridente il piede operato: le fistole si sono chiuse, lasciando piccole cicatrici sulla pelle e anche a spremere con le dita non esce pus. Sono meravigliato e felice per lui, francamente non mi aspettavo un risultato così positivo. Dopo tanti anni non mi stupisco più di nulla: inutile cercare una spiegazione per certe guarigioni che vedo solo a queste latitudini. Le radiografie non sono certo quelle di un piede normale ma se continua così è sulla buona strada.

Io ero per l’amputazione, lui non voleva rinunciare alla sua integrità fisica, pur mantenendo un piede “inutile”. Ian, alla fine hai avuto ragione.

Antonio Melotto

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