A Grugliasco e a Rivoli si sono svolti i primi due incontri della serie “Trasmettiamo l’informazione e non il virus” organizzati da World Friends e CCM Comitato Collaborazione Medica, in collaborazione con l’AslTo3 e con il contributo dell’Unione Buddhista Italiana. L’iniziativa è stata una preziosa occasione per la promozione di salute e informazione alla comunità locale, con particolare attenzione dedicata alle persone over 60, in modo da garantire loro un momento di espressione e informazione dopo i difficili mesi di lockdown.

In questa occasione abbiamo scambiato qualche parola con Giacomo Becatti, antropologo e collaboratore di World Friends per il progetto “Io R-esisto in strada”.

– Stai partecipando al progetto “Io R-esisto in strada” di World Friends e CCM in qualità di antropologo. Qual è l’obiettivo della tua partecipazione all’interno di questo progetto?

– Sono antropologo e operatore sociale e collaboro al progetto nelle attività sui territori di Rivoli, Grugliasco e Collegno in Piemonte. La mia è una sensibilità che definirei “empirica”, sicuramente diversa da quella che può avere uno psicologo o un infermiere. Questo progetto è riuscito a mettere insieme tante competenze differenti, sottolineando l’importanza di lavorare insieme.

Il fenomeno del Coronavirus e delle politiche che ha attivato ha riguardato tutti, ma ciascuno in maniera differente e ritengo che una competenza antropologica sia stata adeguata e produttiva per comprendere come questo evento sociale abbia attraversato i singoli vissuti e creare un legame con le persone, in particolare in una fase meno emergenziale come quella del post-lockdown. Emergono sensazioni e necessità nuove per ciascun individuo: tutti o quasi abbiamo attraversato un momento particolare, che ci ha costretti a ritrovarci più soli con noi stessi. Va ora fornita l’occasione di raccontarlo e di “socializzare” questa narrazione, anche e soprattutto per comprendere, cosa che non si fa solo con le statistiche, quali siano ora i bisogni delle persone, cosa ci sia da fare e come possano migliorare i servizi a loro dedicati.

– Raccontaci dei primi incontri di “Trasmettiamo l’informazione e non il virus”: dove si sono svolti e perché sono stati scelti questi luoghi?

– Il primo incontro si è svolto in piazza Cavallero a Rivoli, un luogo di ritrovo “spontaneo” per molti anziani; il secondo a Grugliasco nel Centro di incontro San Giacomo. Si tratta di un centro di incontro e di ascolto, frequentato prevalentemente da persone anziane, ma non necessariamente sole. È un luogo di ritrovo importante per il territorio, capace di garantire una socialità e una solidarietà, come anche testimoniato da alcuni partecipanti all’iniziativa di lunedì. Parlo di solidarietà, perché anche durante il lockdown questo centro di incontro si è prestato ad aiutare le persone più in difficoltà, come ad esempio quelle impossibilitate a fare la spesa. È così che questa realtà si è mantenuta viva, facendosi ricordare dalla comunità e rafforzando il tessuto sociale in un momento critico. Anzi, si tratta di qualcosa di abbastanza singolare. D’altronde i territori di Rivoli, Grugliasco e Collegno sono molto diversi da quello della città di Torino: si tratta di aree meno abitate e più isolate. Qui il problema è la solitudine.

A Torino c’è stata un’emergenza per quanto riguarda i senza fissa dimora. Di senza fissa dimora in questi territori non ce ne sono molti, ma persistono situazioni di chi oltre una casa non ha nulla. Ciò ha fatto sì che l’esperienza del Coronavirus e del lockdown siano state ancora più silenziose e altrettanto marginali.

– Dunque, l’obiettivo di questi incontri, oltre ad informare gli utenti, era anche di presentarsi con uno spirito di solidarietà, parlarci e scoprire le loro esperienze rispetto al lockdown e al virus?

– Esattamente. L’iniziativa era strutturata in tre momenti differenti: un primo di natura sanitaria, che continua tutt’ora a suscitare interesse, nonostante il “bombardamento” mediatico (come lo chiamano le persone che abbiamo incontrato) di qualche mese fa. Continua però ad esserci un vivo bisogno di capire e di sapere come organizzarsi in termini di prevenzione; gli altri due momenti sono stati pensati prevalentemente da me e dalla psicologa Francesca Simi, ma sempre rielaborati in équipe, in modo da creare un’occasione per raccontare e raccontarsi e addirittura ripensarsi alla luce del lockdown, inteso come momento spartiacque in grado di modificare le realtà sociali. Abbiamo proposto un’attività di gruppo in cui con dei cartellini (uno rosso e uno verde) chiediamo alle persone di mettere a voto delle definizioni del lockdown: le risposte sono molto variegate. Infine abbiamo elaborato un questionario, per la precisione un’intervista semi-strutturata: una sorta di canovaccio tramite il quale cercare di intercettare descrizioni di luoghi e territori, di ciò che funziona o dei cambiamenti desiderati, di quali siano i servizi, le attività o le reti (anche informali) che vengono ritenute fondamentali dalle persone per la qualità della loro vita.

– Rispetto agli utenti, ti è sembrato che avessero domande o perplessità sul virus e sul contagio, forse anche a causa di un’informazione recepita in maniera scorretta?

– Sì, può accadere che pur a seguito di una “iper-esposizione” a livello di informazione da parte di utenti di una certa età, non sempre pronti a cogliere le parole chiave di un’informazione, possa esistere ancora una curiosità, una necessità di ulteriore precisazione. Esiste ancora una voglia di sapere e capire quali sono i rischi e come si possano prevenire efficacemente. Questa necessità persiste anche in questa fase in cui invece di rischio di contagio si parla oramai ben poco.

– Ti ritieni soddisfatto di questo primo incontro? Ne sono previsti altri e quali utenti pensate di raggiungere?

– L’incontro è andato sicuramente bene. C’è stata una partecipazione collettiva attiva e di qualità: le persone sono state contente di questo coinvolgimento. Ho percepito il loro entusiasmo per la possibilità di parlare e raccontarsi.

Abbiamo condotto un altro incontro il 30 luglio e ne è previsto uno per il il 3 agosto a Collegno. Gli utenti che vogliamo incontrare sono quelli che possono essere raggiunti grazie ad una rete di servizi, conoscenze e di volontari che si muovono sui territori dove ci recheremo e che si è già attivata per far sapere di quest’attività: sono stati stampati dei volantini e abbiamo preparato dei kit igienico-sanitari da distribuire ai partecipanti come supporto alla quotidiana attenzione nella prevenzione del virus.

Gli utenti che immagino incontreremo sono quelli rappresentativi di questi luoghi: persone over 60, spesso in condizioni di solitudine, ma non necessariamente di abbandono. Quanto ho visto nell’incontro precedente è che molte persone fanno leva su una rete amicale di sostegno e solidarietà: un dato molto interessante a dispetto di come la socialità sia stata la prima ad essere bandita durante l’emergenza e di come la si ritenesse una necessità esclusiva dei più giovani. Invece proprio gli anziani, che sono tra le persone più a rischio, hanno sofferto per essersi ritrovati privati della propria rete amicale, una rete sicura nella misura in cui le persone si prendono cura di sé per prendersi cura degli altri.

Mi sono reso conto che anche il momento attuale è fatto di emozioni molto dense. Molte signore mi hanno descritto la gioia immediata di potersi incontrare tra amiche. Ora invece quel che accade è un ritorno alla malinconia per chi aveva sospeso altri tipi di drammi o sofferenze, perché ritrovatosi in questa emergenza, perché trovatosi a vivere in condizioni di solitudine.

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