One world, one medicine, One Health: un approccio integrato alla salute del nostro ecosistema

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la salute come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o infermità”. Questa affermazione è chiaramente riferita alle condizioni di salute dell’uomo, ma se ci soffermiamo sugli aggettivi che definiscono il benessere possiamo allargarne il significato individuando uno stretto rapporto con l’ambiente che ci circonda: i nostri simili, gli animali e il contesto naturale che condividiamo con loro. L’ambiente sociale è definibile come una rete di relazioni umane regolate dal rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo (casa, cibo, istruzione, protezione sanitaria, lavoro dignitoso e giustamente retribuito). La dichiarazione dell’OMS ha il pregio delle affermazioni di principio: il loro significato si può estendere restando sempre aperte alle novità dei tempi.

Negli ultimi anni si è affermata una nuova visione riguardo il tema della salute globale che ha preso il nome di One Health. La salute delle persone viene intimamente legata a quella degli animali e dell’ambiente. Secondo questa prospettiva, l’approccio alla salute pubblica deve essere interdisciplinare, ossia avvalersi di figure professionali nel campo della medicina umana (medici) e animale (veterinari) che lavorino insieme a biologi, agronomi, ecologi, sociologi ed economisti. Ormai tutta la comunità scientifica è d’accordo e la pandemia in corso è una conferma di questa necessità.

Le origini della visione One Health

Da secoli abbiamo testimonianze dello stretto rapporto tra uomini, animali e ambiente. La prima è rappresentata dal fondamentale trattato “De bovilla peste”, pubblicato nel 1715 da Giovanni Maria Lancisi (1654-1720). Medico e archiatra di papa Clemente XI, Lancisi è noto per il suo importante contributo alla medicina veterinaria durante l’epidemia di peste bovina che colpì l’Europa nel XVIII secolo. Nel “De bovilla peste” Lancisi riporta le principali caratteristiche cliniche della peste bovina del 1711 e ne discute le misure di controllo. Tra queste una delle più rilevanti era l’introduzione dello stumping out – l’abbattimento degli animali infetti – per cui vengono riportate speciali raccomandazioni pratiche: dal come condurlo, sino ad indicazioni circa il seppellimento e la proibizione di spostare gli animali contagiati, nonché la descrizione delle misure igieniche e politiche adeguate a gestirlo. Inoltre, sottolinea le relazioni tra l’epidemia nel bestiame, la carestia e la povertà nella popolazione umana, suggerendo le necessarie misure politiche da adottare per far fronte a questa piaga sociale.

Un altro esempio di approccio One Health è fornito dalla scoperta del vaccino antivaioloso da parte del medico britannico Edward Jenner sul finire del XVIII secolo. Il medico aveva osservato che le mungitrici di vacche non contraevano la malattia e intuì che la loro immunità era dovuta al contatto con il virus del vaiolo bovino (cowpoxvirus), appartenente alla stessa famiglia di quello del vaiolo umano (smallpoxvirus). Questa osservazione permise la formulazione di un vaccino antivaioloso a partire dalle pustole del vaiolo nelle vacche. Ne è risultata l’eradicazione della malattia in tutto il mondo.

Dalle zoonosi al concetto di One Health

Quando si parla di One Health è impossibile non fare riferimento alle “zoonosi”. Questo termine fu coniato da Rudolph Virchow alla fine del XIX secolo per indicare una qualsiasi malattia infettiva o parassitaria che può essere trasmessa dagli animali all’uomo in modo diretto (contatto con la pelle, peli, uova, sangue e secrezioni) o indiretto (tramite altri organismi vettori o ingestione di alimenti infetti).

Negli stessi anni un importante contributo alle zoonosi venne dato da William Osler, medico canadese considerato il padre della medicina moderna e fondatore della prima clinica medica degna di tale nome nel mondo anglofono (Johns Hopkins Hospital di Baltimora), dove, in anticipo sui tempi, insegnò ai suoi studenti il valore dell’empatia con il paziente. Questo “maestro” fu infatti autore di un fondamentale trattato di medicina interna aggiornato alle rivoluzionarie scoperte della batteriologia moderna e fu tra i primi a sostenere l’importanza della veterinaria come disciplina indispensabile di sanità pubblica, sottolineando la necessità di una visione più ampia per lo studio e la tutela della salute.

Oggi si calcola che negli ultimi trent’anni circa il 70% delle malattie infettive umane emergenti siano zoonosi, o malattie trasmesse da vettori. Il termine emergenti sta ad indicare l’aumento di rischio della trasmissione animale-uomo dovuto ai cambiamenti climatici in atto.

Gli esempi di zoonosi che mettono a rischio la salute umana sono numerosi: febbre gialla, brucellosi, rickettsiosi; esiste poi un rilevante numero di parassitosi come le amebiasi, schistosomiasi, tripanosomiasi, teniasi, toxoplasmosi, leishmaniosi, fascioliasi, trichinellosi (per citare solo le più diffuse) che mantengono serbatoi animali e sempre più spesso sono in grado di colpire l’uomo. Tra le zoonosi più note storicamente ricordiamo la peste bubbonica, la salmonellosi, la malaria, la rabbia. Impossibile non citare l’influenza aviaria da ceppo H5N1, diffusasi all’inizio tra il pollame e successivamente all’uomo, e la pandemia influenzale causata dal ceppo H1N1 che, partendo da un allevamento di maiali in Messico, si è diffusa a Stati Uniti, Europa, Asia ed Africa.

Parallelamente, il riscaldamento del clima ha facilitato la diffusione di alcuni vettori e quindi delle malattie da loro trasmesse in aree dove non erano originariamente presenti. Il caso più studiato è quello delle zanzare del genere Aedes che trasmettono malattie un tempo presenti solo in zone tropicali e subtropicali ma che ora sono diffuse in tutto il mondo eccetto i Poli. La più conosciuta è la Aedes albopictus (zanzara tigre), presente ora anche in Italia e negli USA, che ha causato l’emergenza della febbre del West Nile e Chikungunya. Ricordiamo anche l’aumento delle rickettsiosi da zecche in Europa.

Ultimo esempio in ordine di tempo è la pandemia da COVID-19 che ci troviamo ora a combattere. Si sa che il virus in origine ha infettato i pipistrelli e che (con modalità non ancora completamente chiarite) è passato al pangolino, allo zibetto o ad altri animali selvatici venduti nei banchi alimentari dei mercati asiatici. Spesso questi animali sono tenuti vivi (per mancanza della catena del freddo) e macellati al momento della vendita: l’inevitabile contatto delle mani dell’uomo con il sangue, l’urina e le feci di questi animali è il fattore responsabile della propagazione del virus che con il trascorrere del tempo ha compiuto il “salto di specie” animale-uomo.

Dalla teoria all’azione: conferenze e progetti One Health

Il definitivo riconoscimento da parte della comunità scientifica mondiale del progetto One Health è arrivato nel 2004 con la presentazione della lista di dodici principi, “The Manhattan Principles On One World, One Health” (Wildlife Conservatory Society, 29 settembre 2004, Rockfeller University). Vi si affermava lo stretto legame tra salute umana, salute animale e salute degli ecosistemi e si definivano le norme di comportamento interdisciplinare. Si suggerivano inoltre le linee guida legislative per rendere operativo tale approccio: era raccomandata una sorveglianza delle aree di stretta interfaccia animale-uomo, potenzialmente causa di epidemie e pandemie.

Da allora è iniziata la realizzazione di vari progetti One Health in tutto il mondo, monitorati e discussi in periodiche conferenze (World One Health Conferences). L’ultima si è tenuta on-line a fine ottobre 2020. Più di 1700 partecipanti, divisi in 40 tavole rotonde e numerose lezioni magistrali, hanno portato il loro contributo. Un importante apporto scientifico è stato dato dai Paesi a basso reddito, soprattutto dell’Africa sub-sahariana, dove sono presenti numerosi progetti sanitari, come quello a sostegno dei pastori nomadi del Nord del Kenya (Marsabit), gestito dagli amici del Comitato Collaborazione Medica di Torino.

In questi progetti le comunità locali hanno un ruolo centrale: le conoscenze tradizionali sulla salute umana e sulla cura degli animali vengono valorizzate e integrate da cooperanti esperti in questi settori. Un esempio è la brucellosi (una malattia di una certa diffusione tra i pastori e le loro famiglie), causata da un batterio presente nelle secrezioni dei mammiferi (capre, vacche, cammelli, pecore) per sconfiggere la quale è sufficiente la semplice bollitura del latte prima di consumarlo. Ma questo non basta: l’altra misura è la sensibilizzazione dei pastori perché facciano vaccinare i propri animali: solo così si spezza la catena di trasmissione della malattia.

La conclusione è che non esiste una linea di demarcazione tra la salute umana, animale e dell’ambiente. L’ambizioso progetto One Health afferma un’idea sostenuta da oltre due secoli di prassi medica e ed empirica: l’assoluta necessità di una collaborazione trasversale che riunisca ed attinga a diverse competenze professionali al fine di promuovere una salute unica e condivisa. Per raggiungere questo obiettivo è necessario approfondire la conoscenza dell’interazione con l’ambiente, promuovendone al contempo la tutela e monitorando le situazioni più sensibili, come le aree di stretta interfaccia animale-uomo, focolaio di potenziali di epidemie o pandemie. Nondimeno devono essere considerate le dinamiche delle popolazioni, facendo dell’epidemiologia un efficace strumento per la sorveglianza e il controllo dei problemi comuni. Una visione di insieme, che valuti tutti quei i fattori biologici chimici e fisici, ma anche sociali ed economici, che regolano l’interazione tra uomo e ambiente; un approccio integrato per una medicina preventiva che oggi più che mai deve essere l’obiettivo prevalente in Sanità.

Articolo a cura del Dott. Antonio Melotto

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