David

Inverigo, maggio 2020.

La pandemia mi ha bloccato, prigioniero in Lombardia, non si sa fino a quando.

Senza questo maledetto virus ora sarei in missione al Neema tra i miei piccoli pazienti. Per ora mi accontento di ricevere gli aggiornamenti che mi inviano gli amici del Neema riguardanti i bambini operati in ottobre-novembre 2019.

Caro David,

come sempre, quando si avvicina il momento di partire (anche se questa volta non potrò farlo) il mio pensiero va a te. Quasi mi stupisco di questo puntuale ricordo: sarà anche perché ho la tua foto in icona tra le tante sul mio desktop e lo sguardo mi cade spesso in quell’angolo in alto a destra. L’immagine dello sfondo del computer ritrae un gruppo di elefanti che attraversano un fiume della Samburu Land. Questa foto l’avevo scattata proprio l’anno in cui ti ho conosciuto a Nairobi. Guardo questi bestioni sorpresi mentre camminano con passi maestosi nel fiume senza sollevare la minima onda, il minimo spruzzo. Davanti al gruppo ci sono due individui adulti seguiti da uno piccolo, perfettamente integrati in quell’ambiente di vegetazione rigogliosa. Sembrano quasi sorgere dall’acqua.

È finita da poco la stagione delle piogge. Guardo ancora la tua foto nel riquadro, David, e mi piace pensare che tu ora faccia parte di questo lento scorrere di vita, ora sei albero, fiume, elefante, scimmia, uomo: sei tutto ciò che vedo in quell’immagine. Mi guardi dritto negli occhi con un sorriso aperto, che esprime fiducia. Ti manca qualche dente. Dall’espressione del tuo viso non traspare sofferenza, peraltro immaginabile se si abbassa lo sguardo sul corsetto e sul collare che indossi.

Nairobi, Mbagathi Hospital, ambulatorio chirurgico, maggio 2013.

È venerdì, il giorno delle visite a Mbagathi. La fila delle persone davanti all’ambulatorio si allunga sul prato. Visito con Gianfranco, il mio collega e amico chirurgo, compagno di tante emozioni. Io mi occupo dei pazienti con problemi ortopedici.

Entra una donna sulla trentina che ti porta sulla schiena avvolto nel kanga, un telo di colori accesi che serve per trasportare i figli. Qui il passeggino ce l’hanno solo i ricchi. Tiene per mano un altro bambino piccolo, ancora incerto e insicuro nel camminare.

Mi saluta, si gira di lato, si appoggia al lettino, si scoglie il kanga e ti depone con delicatezza. Mi avvicino e le chiedo quale sia il problema. Sei molto magro, riesci a stare sdraiato solo su un lato, rannicchiato in posizione fetale. Ti guardo e ti chiedo il nome.

“David, e ho già otto anni”.

Alla visita non hai dolori particolari, non sorridi e guardi nel vuoto. Con le dovute precauzioni provo a metterti in piedi: ci rimani.

Cominci a camminare con parecchia difficoltà, la schiena ed il collo curvi in avanti. Sembra che tu possa cadere a ogni passo. Quello che mi colpisce di più ora che ti vedo in piedi è la magrezza delle tue gambe: pelle e ossa. Tua madre dice che da circa un anno hai iniziato a sentirti sempre più debole e da qualche mese non vai a scuola, che pure frequentavi volentieri. Non ricorda che tu abbia avuto febbre, diarrea, tosse, mal di pancia.

Chiamo Gianfranco e decidiamo di fare una radiografia della colonna vertebrale e un esame base del sangue. Due ore dopo (i tempi qui sono sempre dilatati) le immagini confermano il nostro sospetto: la tubercolosi sta erodendo le tue vertebre. Sei anche anemico, ma questo ce lo aspettavamo. Dobbiamo impostare una terapia per la tubercolosi e sottoporti a un regime alimentare con un adeguato apporto calorico: hai bisogno di proteine e ferro. Per questo scopo ti portiamo nell’ambulatorio infettivo adiacente: il personale poi ti seguirà nel tempo, in quanto questa terapia dovrà durare almeno sei mesi. Non ci pensiamo nemmeno per un attimo a ricoverarti qui perché il sovraffollamento e la mancanza di igiene del reparto pediatrico sono impressionanti.

Io però come ortopedico devo pensare a sostenerti con un corsetto e con un collare (evitiamo di applicarti il gesso per ragioni igieniche). Ti riportiamo in ambulatorio dove ti modello un collare con del materiale di gommapiuma densa che mi ero portato dall’Italia e preparo una richiesta scritta all’APDK (Association for the Physically Disabled of Kenya), perché si possa confezionare un corsetto per sostenerti il busto. Già cosi riesci a guardarmi dritto negli occhi, senza fatica. Ti offro due biscotti che mi erano avanzati dalla colazione del mattino e la prima cosa che fai è darne uno al tuo fratellino: bravo David, mi hai dato una bella lezione. Ora tua madre può portarti a casa, a Kibera, la baraccopoli dove vivi. Tornerai tra due settimane con il corsetto.

Ed eccoti qui David, porti il corsetto confezionato su misura all’APDK. Mi appari più in forze, anche il cammino è meno faticoso: questa volta mi sono procurato un pacchetto di biscotti e un litro di latte da dividere con il fratello piccolo. Prendili e buona colazione a voi.

Ti ho rivisto a novembre e ti ho trovato ancora meglio, dalle radiografie pare che il progredire della malattia si sia arrestato, lo spero vivamente.

Nairobi, Mbagathi Hospital, aprile 2014.

Sono in ambulatorio chirurgico, non c’è David nella fila dei pazienti, chiedo di lui alle infermiere: non lo vedono da gennaio. Mi dicono che veniva ogni mese in reparto tubercolosi per ritirare la terapia e da lì lo mandavano in ambulatorio da loro per il controllo del corsetto. Sono tanti i bambini questa mattina, inizio a visitarli. Ogni volta che entra qualcuno allungo il collo per cercare David: sarebbe facile individuarlo per la presenza del corsetto. Florence, la mia assistente tuttofare (infermiera, ferrista, aiuto chirurgo) ha capito la mia ansia da subito e va al reparto tubercolosi a chiedere notizie del bambino. Torna dopo pochi minuti e si rivolge a me scuotendo il capo: “pole daktari”.

Ho capito.

Mi alzo ed esco nel prato. Mancano pochi pazienti da visitare, possono aspettare cinque minuti.

Ci sono due jacaranda fioriti: attorno a loro il verde dell’erba è coperto dai fiori azzurri caduti dai rami, più in là spicca il rosso acceso di due piante di ibisco, il muro di cinta è coperto da bouganville multicolori, il sole va e viene, il cielo è solcato da grosse nuvole che sembrano giganteschi batuffoli di cotone, i richiami degli ibis e dei corvi si confondono con i lamenti che provengono dal reparto pediatrico che ho alle spalle.

Chiudo per un attimo gli occhi e faccio un respiro profondo come per assorbire tutta quella carica di vita e di colore che vorrei trasmetterti dove sei ora David.

Antonio Melotto

Related Posts