Babadogo

Ottobre, 2019.

Questa mattina, dopo colazione in guest house, si va a Babadogo a visitare una delle palestre periferiche all’interno delle baraccopoli.

Mi accompagna Alessandro, trent’anni, studente di medicina al quinto anno. Lo sto aiutando a preparare la tesi di laurea che avrà per argomento il trattamento dei piedi torti in un contesto di emarginazione e povertà. Ci tengo molto a questa ricerca perché rappresenta la sintesi di tanti anni del mio lavoro e in più Alessandro ha la stessa età di mio figlio Andrea.

Boniface è alla guida del pullmino che passa a fatica nelle stradine dello slum per la presenza di buche e pozzanghere. Un canaletto di scolo dei liquami delimita i due lati della strada, compresa tra due file continue di piccoli shops sgangherati dove si vende di tutto. Si procede a passo d’uomo tra una moltitudine di persone che vanno in ogni direzione: Boniface guida con attenzione perché molti, bambini in particolare, attraversano la strada all’improvviso. A volte sono alcune capre a ostacolare la marcia del veicolo.

Dopo una buona mezz’ora arriviamo a destinazione: ci aprono un cancello ed entriamo in una piccola oasi di verde. È raro vedere alberi in questi ambienti, attorno a una bassa costruzione in muratura ci sono alcuni banani ed eucalipti: quella è la nostra fisioterapia. Un odore penetrante e tante piume bianche sparse attorno ci rivelano la presenza di un capannone lungo una decina di metri, adibito ad allevamento di polli, al lato opposto del sentiero.

Entriamo nella piccola palestra il cui pavimento è tappezzato di stuoie sulle quali vengono distesi i bambini da curare. Le nostre due fisioterapiste Catherine e Yvonne sono già presenti. Stanno lavorando con le mamme e con i bambini. Ci togliamo le scarpe sulla soglia. Questa mattina i piccoli pazienti sono quattordici, affetti da paralisi cerebrale infantile e altre malattie neuro-muscolari, tutti al di sotto dei quattro anni di età. Quasi tutti i bambini, chi più chi meno, presentano segni di deficit mentale, alcuni guardano di traverso con gli occhi spalancati; altri con la bocca semiaperta e un rigolo di saliva che sgocciola dal mento; altri ancora sono irrigiditi con gambe e braccia in posizioni innaturali.

A osservare lo sguardo e la mimica facciale di questi bambini ci si domanda che pensieri si nascondano in loro senza poter uscire. Qualcuno comunica con gli occhi: una piccola smorfia di dolore, un accenno di sorriso se chiamato per nome o dopo una carezza.
Ammiro il coraggio che hanno queste donne, fisioterapiste e mamme, che li seguono con tenacia nella speranza di una guarigione che nella maggior parte dei casi non avverrà mai.

A cosa serve tutto ciò che fanno? Francamente non so darmi una risposta.

Catherine e Yvonne ogni giorno visitano un centro diverso in quanto lo scopo del progetto sanitario, oltre che trattare con la loro competenza il bambino, è di insegnare alle madri gli esercizi base per contrastare la rigidità e stimolare i loro figli al movimento.
A Babadogo il martedì, cioè oggi, è dedicato al controllo dei bambini e al colloquio con le madri per affrontare i problemi della gestione dei piccoli pazienti. Gli esercizi comprendono il controllo muscolare del collo e del busto per stare seduti, lo stimolo a “gattonare”, che per un neonato sano è il preludio alla deambulazione, ma che in questi piccoli non è presente, per poter arrivare, nei casi più fortunati, a camminare correttamente. In un angolo della palestra sono sistemate alcune “special chairs” in legno sulle quali è possibile sistemare i bambini in posizione corretta con supporti per la schiena e per il collo, come se fossero ad un banco di scuola. Seduti, con le braccia sul piano d’appoggio, possono eseguire esercizi di manualità e coordinazione motoria con palline e cubi colorati, sotto forma di gioco.

Un bambino, che poteva avere cinque anni, vestito con una maglietta rossa logora e sfrangiata entrava ed usciva dalla palestra, attraversava il cortile di corsa, si nascondeva dietro gli alberi, mi chiamava “daktari” e mi sorrideva, invitandomi a giocare.
Catherine mi ha detto che quel bambino aveva fatto grandi progressi da quando l’avevano preso in cura, neonato di pochi mesi, per una paralisi cerebrale. Era diventato la “mascotte” della fisioterapia perché la sua vivacità era di esempio e stimolo alle mamme che avevano in trattamento i loro bambini.

Sono uscito in cortile per giocare un po’ con lui. Brian, questo il suo nome, era instancabile, nel suo sorriso c’era una felicità contagiosa che mi ha colpito. Il pallone di stracci ha fatto il resto. Tra rincorse e scatti palla al piede il tempo è trascorso veloce, troppo veloce: si è fatta l’ora di tornare al Neema.

Bado kidogo, daktari”. Brian mi domanda di restare ancora un po’… ma ora devo andare, alla prossima: “kwa heri, Brian!
Usciamo nel caldo polveroso della baraccopoli, il pullmino ondeggia tra le buche dello sterrato, mi attacco a una maniglia sopra il finestrino per evitare le testate e lo sballottamento. Con me ho il ricordo di quel bimbo, il suo sorriso e la sua vivacità.

Cosa sarà di lui nell’inferno in cui vive…

Antonio Melotto

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