Teresa
Mother Teresa Centre, ottobre 2019.
Mi trovo a Huruma, una delle tante baraccopoli da cui provengono molti dei pazienti con problemi ortopedici che curo al Neema Hospital. Sono seduto nel pulmino a fianco a Boniface, il nostro driver. Procediamo a passo d’uomo tra una moltitudine di persone in movimento. Questo è un mondo di sole e polvere su cui ristagna una cappa di afrori umani e animali. Ogni tanto incontriamo un mototaxi che avanzando lentamente si destreggia tra la gente. Il passeggero sul sedile posteriore è al riparo dal sole cocente sotto il caratteristico ombrello multicolore.
Arriviamo in uno slargo della strada e svoltiamo a sinistra. Ci fermiamo di fronte a un grande cancello azzurro che ci viene aperto con premurosa cortesia da un askari alto e magro dalle chiare fattezze etiopi. Entriamo nel centro delle suore di Madre Teresa. Ci viene incontro sorridendo sister Oriah, di origine spagnola. Mi ha riconosciuto: ci eravamo già incontrati l’anno prima al Neema Hospital dove era venuta per portare alcuni bambini con paralisi cerebrale. Dopo aver respirato la polvere e gli odori acri della baraccopoli, il suo abbraccio, il sorriso giovane e il profumo del frangipane fiorito mi danno un senso di sollievo.
Questo centro è un’isola felice: c’è una pulizia scrupolosa degli ambienti, le suore che indossano l’abito bianco con il velo bordato di azzurro si avvicendano con le infermiere intorno ai piccoli ospiti che hanno bisogno di attenzioni continue. Sono ricoverati quaranta bambini, la maggior parte con gravi disabilità, quasi nessuno cammina autonomamente, molti hanno evidenti deficit mentali. Ora, siamo alle nove del mattino, li troviamo sistemati in speciali seggiole sotto un’ampia tettoia, dopo essere stati imboccati per la colazione. Le infermiere si muovono tra loro, ad alcuni correggono la posizione del collo, delle braccia, delle gambe; altri vengono puliti dal rigurgito o dal rivolo di saliva che perdono in continuazione. Sia loro che le suore conoscono il nome di ogni bambino, a tutti rivolgono un sorriso, fanno una carezza, dicono qualcosa di affettuoso.
Il mio è un compito delicato: visitando i piccoli pazienti devo capire a quali di loro la chirurgia può migliorare la disabilità. Devo valutare con attenzione lo stato mentale: non sarebbe utile correggere una malformazione alle braccia, alle mani, alle gambe, ai piedi se poi il bambino non ha le facoltà mentali per camminare e manipolare oggetti di uso comune. Concludo che solo due di loro potranno beneficiarne: Patrick e Peter.
Patrick, il primo, dieci anni, non cammina ma ha un discreto uso degli arti superiori, parla con lentezza e fatica, storpiando le parole; comprende bene quello che gli si dice, passa le giornate a disegnare con i pastelli, anche se con difficoltà per via dei muscoli troppo rigidi che ostacolano i movimenti delle dita delle mani. Gli scarabocchi sui fogli di carta rivelano un buon accostamento dei colori, si capisce che questa è la sua passione. Con la chirurgia si potrà migliorare la presa tra il pollice e le altre dita per permettergli di usare con meno fatica e più destrezza i pastelli. E così potrà esprimere attraverso i colori il mondo di fantasie ed emozioni imprigionate nella sua testa. In fondo non è questo il significato dell’arte figurativa? Ogni opera reca sempre traccia, più o meno intensa, dello stato d’animo dell’autore.
Peter ha sette anni. Anche lui ha i muscoli rigidi che lo obbligano a stare nella posizione inginocchiata e quindi gli impediscono di camminare; non ha deficit mentali, parla correttamente: per lui posso allungare i tendini alle anche e alle ginocchia per metterlo nelle condizioni idonee alla deambulazione.
Mentre li visito arriva velocissimo un bimbo seduto su uno skateboard spinto dalla forza delle braccia: mi tende la mano, si chiama Andrew, cinque anni. Sister Oriah mi racconta che è stato lasciato da neonato al cancello, perché completamente paralizzato agli arti inferiori. È portatore di una malformazione della spina dorsale e del midollo chiamata “spina bifida”. Si muove con disinvoltura tra i suoi compagni, zigzagando veloce tra sedie e carrozzine. Ogni tanto si sistema le gambe inanimate incrociandole sotto il bacino. Colpisce il contrasto tra la sua abilità a spingersi con le mani, la vivacità del suo sguardo e l’abbandono in cui giacciono gli arti inferiori, quasi fossero oggetti ingombranti. Andrew vive così. A vederlo, si direbbe che si diverta a scorrazzare sorridente a bordo del suo personale velocifero. Ora il mondo per lui è tutto qui, in questo istituto. Crescendo e andando a scuola potrà uscire dall’isolamento nel quale lo costringe la sua disabilità e quel mondo che ad altri è negato, lui potrà conoscerlo.
Mi trovo a disagio di fronte a questi piccoli raccattati tra le immondizie o abbandonati davanti al cancello del centro. Affiorano in me domande scomode. Perché esistono bambini in queste condizioni? Perché il nostro Dio, definito buono e misericordioso, permette ciò? È una domanda che ci siamo fatti tutti nella vita, almeno una volta. Una risposta io non ce l’ho. Forse Oriah si è data la sua risposta e ne ha tratto delle certezze. Lo si nota dal modo di comportarsi sereno tra questi bambini vittime di tragedie umane. Con lei non sono ancora così in confidenza per chiederle quale è stato il suo percorso interiore. Sono convinto che in forza della sua risposta, lei viva trasmettendo amore nella semplicità dei gesti quotidiani: il suo comportamento non è dovuto solo alla fede, all’obbedienza all’Ordine. Lei segue le regole del “cuore” che ti portano con spontaneità ad aiutare chi è nel bisogno, i poveri, gli ultimi, persino coloro che ti sono nemici. È tutto scritto nel Vangelo, non è una novità, ma quanti lo vivono così radicalmente? Ammiro il lavoro esemplare, il coraggio, il suo ma anche quello di tutte le altre donne che si occupano di questi bambini “inutili”, che non dovrebbero essere nati perché non funzionali allo stile di vita del nostro mondo, efficiente e ricco, secondo il quale una persona vale per quello che fa – come un ingranaggio – non per quello che è. Vorremmo essere tutti belli, dinamici, non c’è posto per gli imperfetti, ci rallentano e mettono in crisi il nostro egoismo di fondo che ci omologa e ci fa rifiutare il diverso. Il diverso che metterebbe in crisi il modello di vita che ci siamo costruiti su misura, noi “normali”.
Io credo che ridare la possibilità di inclusione anche a uno solo di questi bambini sia un grande risultato. Ho usato intenzionalmente il termine inclusione e non integrazione: il primo è il superamento del secondo, nel senso che sono le persone, la comunità, l’ambiente che devono adattarsi alle esigenze delle persone con disabilità e non il contrario. Ma questo argomento è molto complesso da affrontare con poche righe in tutte le sue sfaccettature. Potrebbe bastare, come stimolo ad agire nel nostro quotidiano, tenere sempre presente che l’amore non è fatto solo di parole ma è un «servizio umile, fatto nel silenzio e nel nascondimento, quando tu ti dimentichi di te stesso e pensi agli altri, questo è amore» (Papa Francesco).
Ecco, Oriah è tutta qui.
Seguendo questi pensieri mi congedo da lei con un abbraccio: torno alla dura quotidianità della baraccopoli e dei miei pazienti con una motivazione ancora maggiore nel voler dare quanto più posso a loro, “malati di povertà”. In questi ventisei anni di missioni africane ho lavorato, incontrato tante persone; di alcune ricordo il nome, di altre il viso, molte non le ricordo nemmeno. Ma di te, Oriah, non dimenticherò il sorriso e le tue mani che trasmettono amore.
Antonio Melotto