Peter
“Karibu mama, karibu!”, che bel bambino hai per mano!
Anche lei ha un bel viso, un corpo snello da giovane donna avvolto in un kanga di tanti colori.
Ho già visto il problema: entrambi i piedi del piccolo sono malformati.
“Jna lako nani?”
“Peter”, dice la madre. Il bambino non parla e si guarda intorno. Penso che questo ambiente così pulito e ordinato sia estraneo per lui che vive nella miseria e nella confusione dello slum.
Indossa le infradito: dopo tanti anni, ogni volta che li vedo, mi chiedo ancora come facciano a camminare questi bambini. Ma poi penso che tutta l’Africa cammina con le infradito… vabbè!
Appoggia a terra solo la parte esterna del piede, la pianta è rivolta in dentro e non ha contatto con il terreno.
“Enda kwa kitanda”, dico alla madre. Lei lo distende sul lettino da visita e gli tiene la mano. Il bambino mi guarda ed ha un attimo di smarrimento. Gli allungo una caramella che scarta e si infila in bocca. È attento ed ha una buona manualità, non si tratta di paralisi cerebrale: è “solo” una malformazione congenita di entrambi i piedi.
Questi piedi, oltre che torti, sono rigidi, si capisce che sono cinque anni che ci cammina sopra. Questa condizione mi darà qualche problema in più domattina in sala operatoria.
[Nel blocco operatorio, il mattino seguente.]
Sto bevendo un caffè nella tea room e vedo entrare la mamma con il bambino in braccio: lo consegna a Florence, l’infermiera- strumentista tuttofare che a sua volta lo affida a Judit e Daniel, i due colleghi anestesisti. Sento qualche urlo. Sicuramente gli stanno pungendo il braccio per incannulare una vena. Poi silenzio, solo il bip della macchina di anestesia. Daniel si affaccia e mi fa cenno che posso lavarmi: si comincia.
Ho finito, il risultato è soddisfacente, come previsto l’intervento ha occupato quasi l’intera mattinata, avendo deciso di operare entrambi i piedi. Ho chiamato in sala Henry per confezionare i gessi per mantenere la correzione della malformazione. Io esco a bere un po’ di the per rilassarmi prima di iniziare il prossimo intervento: un bambino con osteomielite di gamba. A fine sala, nel pomeriggio inoltrato passo in reparto a controllare Peter: è ancora addormentato, tocco le dita dei piedi che spuntano dal gesso per assicurami che siano calde. Va tutto bene, lui dorme, è meglio così, finché dorme non sente dolore. Vado in guest house a rilassarmi un poco. È quasi ora di cena.
Questa mattina voglio fare un salto in reparto a vedere Peter per controllarlo da sveglio. È un po’ sofferente, lo vedo dalla sua espressione, ma non piange. Gli do una caramella, gli chiedo di muovere le dita che spuntano dal gesso e lui lo fa con una smorfia: va bene, basta così, gli dico. Vado in sala operatoria. A fine seduta, mentre attraverso il cortile diretto in guest house per un boccone, vedo Peter infagottato alla schiena della mamma, avvolto in un kitamba rosso e blu. Mi vengono incontro, Peter si sporge un poco per sorridermi. “Sono belli”, penso. Il suo sorriso mi ripaga della fatica e della tensione spesa in sala operatoria: la stanchezza di oggi è sparita all’istante.
Indico a Peter lo stadio che si vede in lontananza oltre il cancello dell’ospedale e mi faccio promettere di invitarmi un giorno a vederlo giocare a calcio con la maglia rossa del Kenya national team.
Il suo viso si illumina: anche il mio.
Antonio Melotto